Quando il vero problema non è il “quanto” bensì il “perché”
La questione della pressione fiscale in Italia non viene mai affrontata dal punto di vista della gente, ma sempre e solo da quello tecnico, ovvero del Governo
In Italia, da tempo immemorabile, ci si lamenta delle tasse. La frase “Piove, governo ladro!” è diventata proverbiale e riflette un sentimento dello Stato e della gestione della cosa pubblica che la dice lunga sull’atteggiamento, tra il malinconico e il fatalistico, con cui i cittadini italiani accolgano le imposizioni fiscali.
Eppure, le tasse dovrebbero essere una delle prerogative più virtuose di un Paese moderno, civile e democratico: che la parte della Nazione più fortunata si faccia, almeno in parte, carico di quella più a disagio dovrebbe essere uno dei primi sintomi di un sentimento comunitario, di uno Stato coeso.
Un secolo e mezzo di incorreggibile “questione meridionale”
Una comunità nazionale ben lungi dall’essersi affermata
Certo, va detto che, dalla nascita dello Stato italiano, nelle persone non si è mai fatta largo quell’idea di comunità nazionale che, invece, troviamo in tanti altri Paesi europei: lo Stato, insomma, si è sempre visto come qualcosa di estraneo e, talvolta, di invasivo, piuttosto che come la somma e la sintesi della massa dei cittadini.
“Lo Stato siamo noi” non è una massima applicabile all’Italia. Negli ultimi tempi, poi, col crescere a dismisura del debito pubblico e con il relativo aumento della pressione fiscale, l’insofferenza generalizzata verso le tasse è diventata argomento scottante.
E, come tutti gli argomenti scottanti che si rispettino, è stata fagocitata dai talk show televisivi, dai dibattiti e, perfino dalle comparsate: è ormai frequentissimo il caso in cui qualche economista d’accatto o qualche ex bellona in disarmo affrontino, con inusitato brio, il peculiare tema.
Non chiedeteci parole: in Italia più non ne abbiamo…
Le statistiche non permeano (quasi mai) la verità delle cose
Soltanto che la “vexata quaestio” è sempre affrontata da un unico punto di vista, ossia quello dei numeri: la televisione italiana dà i numeri, in definitiva, ma non perviene all’essenza delle cose.
Perché, se si esamina il gettito fiscale italiano, lo si confronta con la pressione percentuale e, infine, si confrontano questi dati con quelli europei, il quadro che ne esce non è poi così catastrofico: ci sono diversi Paesi che pagano più di noi al fisco.
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E, infatti, non è questo il punto: il vero problema, mai posto, delle tasse in Italia è quello di come vengano spesi tutti i soldi rastrellati dal lavoro o dai consumi del popolo italiano.
La vergogna o, meglio, ciò che fa veramente arrabbiare i contribuenti perbene è l’utilizzo, che definire spensierato è altamente riduttivo, dell’enorme gettito ricavato dalle imposte: la maniera sconsiderata, quando non scopertamente criminale, con cui i governanti sperperano il denaro pubblico.
Già, pubblico: parolina magica che, in Italia, assume valenze inaspettate: o sta per qualcosa che non appartiene realmente a qualcuno, una res nullius, per cui posso imbrattare ciò che è pubblico, danneggiarlo, inquinarlo, tanto nessuno me ne chiederà conto; oppure diventa una sorta di proprietà privata di chi la amministra e ne fa l’uso che meglio crede.
Centosessant’anni di Italia, nemmeno uno di federalismo…
I soldi dei contribuenti non sono l’eredità dello zio d’America
Insomma, le nostre tasse vengono scialacquate da un esercito di satrapi che le amministra come amministrerebbe l’eredità dello zio d’America. Con la stessa colpevole leggerezza di un ereditiere scapestrato.
Soltanto che, costoro, a differenza dell’incauto erede, non si troveranno mai sul lastrico: primo, perché i soldi non sono loro e, secondo, perché questi soldi non finiscono mai.
Ed è questo atteggiamento, la sensazione che il nostro denaro venga sprecato, mentre potrebbe servire a migliorare i servizi e ad aiutare chi sta peggio, che rende così odiosa la tassazione in Italia.
È come ritrovarsi, per ribaltare il celebre modo di dire, con la botte vuota e la moglie sobria. Mentre, sopra di noi, banchettano coi nostri soldi.