Spannaus: “Biden e i suoi hanno capito la lezione di Trump”
Per l’analista politico, il neopresidente dovrà bilanciare le voglie di un’America intrisa di federalismo ostentato con la sfida alla Cina sul terreno globale
Andrew Spannaus è un giornalista e analista politico americano, noto per aver anticipato la rivolta populista negli Stati Uniti e in Europa con i suoi libri “Perché vince Trump” (2016) e “La rivolta degli elettori” (2017).
Fondatore della newsletter Transatlantico.info, collabora con “Consortium News” e “Aspenia”, e commenta la politica americana per Rai News 24 e RSI (Radiotelevisione svizzera). È stato Consigliere Delegato dell’Associazione Stampa Estera di Milano dal 2018 al 2020 ed è docente nel Master in Economia e Politiche Internazionali all’ASERI, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
Recentemente ha pubblicato “L’America post-globale” (2020) un’analisi realistica, per capire gli effetti dell’attuale crisi della globalizzazione alimentata dal coronavirus.
L’assalto al Campidoglio ha scioccato il mondo e reso evidente una spaccatura nella società americana. Quali sono le principali radici storiche di questa frattura?
“L’assalto al Campidoglio mostra in maniera estrema la spaccatura socioeconomica che divide gli Stati Uniti. Le società urbanizzate delle coste hanno sviluppato un tenore di vita molto diverso dalle parti meno urbanizzate, più rurali e deindustrializzate dell’America, che vivono profonde difficoltà economiche. Queste si sono sentite tagliate fuori dal progresso e dall’economia globalizzata e permeata dalla finanza, con forti conseguenze sociali. Sono aumentati i suicidi, il consumo di droghe, le difficoltà sociali e psicologiche, il senso di esclusione di chi vede la politica come colpevolmente disinteressata di chi rimane indietro. Ciò alimenta una spaccatura anche culturale. Le zone meno urbanizzate hanno mantenuto un conservatorismo valoriale che è contrapposto al multiculturalismo e all’eccesso del politicamente corretto delle coste e delle grandi città. Se il Paese rimane idealmente unito in termini di base storica, questa unione non si traduce in una condivisione della visione politica attuale. I quattro anni di Trump sono stati un campanello d’allarme per le istituzioni americane, oggi sempre più consapevoli di non poter continuare a ignorare l’urlo di protesta della cosiddetta America profonda. Biden questo lo sa. Per questo, appena è stato nominato ha emesso un ordine esecutivo per privilegiare le industrie americane e facilitare il ritorno negli Stati Uniti dei settori produttivi che sono stati delocalizzati. Si tratta di una presa di coscienza inevitabile dopo l’ascesa del populismo, che ha mostrato che i problemi sociali creati dalla globalizzazione si possono tradurre velocemente in problemi di sicurezza nazionale, sia per le divisioni interne, sia per l’indebolimento del ruolo americano nel mondo”.
Il sistema federale americano alimenta questa spaccatura sociale? Oppure può fornire soluzioni per superarlo?
“La divisione federale lascia molte competenze ai singoli Stati ai quali permette di rafforzare la propria identità particolare rispetto a quella della nazione intera. Ciò si traduce in una grande pluralità di vedute culturali e nel dinamismo economico. È infatti possibile governare sulla base delle diverse esigenze e delle diverse strutture sociali che ci sono all’interno di uno spazio così ampio come quello americano. Gli Stati hanno leggi diverse sull’aborto e sulla pena di morte, sulle tasse, sui sindacati e sulle scuole. Questo è un elemento di forza perché rende più difficile l’omologazione culturale a favore della salvaguardia di tradizioni e culture diverse e permette un forte coinvolgimento nella vita democratica a livello locale. In ogni Contea si vota per esempio per il consiglio delle scuole. Il problema è quando all’interno di queste forti autonomie si rafforzano elementi reazionari. Le leggi sul voto, per esempio, sono diverse da Stato in Stato, con i Democratici che generalmente incoraggiano ad andare alle urne mentre i Repubblicani spesso fanno il contrario, per puro interesse politico. In alcuni Stati del Sud permane una visione antinazionale e le amministrazioni locali devono essere costrette dai tribunali a garantire il diritto di voto agli afroamericani. Quando poi Obama ha cercato di espandere la sanità ai poveri, molti Stati si sono rifiutati di farlo perché ritengono che sia una ingerenza nei propri affari e in questo caso i tribunali hanno dato loro ragione. In tali contesti viene proposta una forma estrema di federalismo, chiamata battaglia sugli ‘States rights’, secondo cui ogni materia che non sia strettamente di interesse nazionale, quindi soprattutto di sicurezza e politica estera, debba essere lasciata agli Stati”.
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L’assalto al Campidoglio e prima le manifestazioni a seguito dell’omicidio di George Floyd hanno fatto notare al mondo l’esistenza di gruppi armati in America. Si tratta di realtà fortemente radicate localmente che giovano quindi del decentramento del potere?
“Questi gruppi non sono nuovi, c’erano già negli anni Novanta. Sono generalmente radicati su alcuni territori dove contestano fino all’esasperazione il troppo potere federale. Non citano Karl Marx o Julius Evola ma si appellano alla libertà o alla Costituzione americana. Può essere che queste milizie armate vengono tollerate a livello locale dalla forza pubblica, che magari condivide con loro un’idea di maggiore autonomia locale. Va però sottolineato che la complicità delle forze dell’ordine è minima. Esse sono molto ridotte numericamente, ma possono fare grandi danni. Tendono a rafforzarsi in periodi in cui c’è un presidente democratico che spinge per più intervento federale a scapito dell’autonomia locale. Trump ha sfruttato questo sentimento mettendo in discussione l’integrità dello Stato. La sua vera responsabilità rispetto al 6 gennaio è di avere minato l’elemento base: la fiducia nell’integrità delle istituzioni, dicendo che le elezioni sono state rubate senza alcuna prova concreta”.
Trump ha perso le elezioni anche perché accusato di non avere saputo gestire l’epidemia da COVID19. Fino a che punto è mancata una gestione centralizzata dell’epidemia? Fino a che punto, invece, la struttura federale ha aiutato?
“Gli Stati americani hanno avuto ruoli importanti nel gestire la pandemia, garantiti dalla libertà concessa dal sistema federale. Gli Stati più conservatori hanno attuato meno restrizioni, pagando poi la leggerezza. Chi è stato meno ideologico nel gestire la crisi ha avuto generalmente risultati più soddisfacenti. Da un lato si può dire che Trump non abbia saputo sviluppare un piano sanitario nazionale efficace. D’altro canto, però, va riconosciuto che una gestione centralizzata avrebbe portato ad altri problemi legati alle misure standardizzate. Ciò avrebbe per esempio fatto danni al sistema scolastico e a quello economico in zone che avevano pochissimi contagi”.
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Che cosa dobbiamo quindi aspettarci dalla crisi d’immagine internazionale degli Stati Uniti rafforzata dall’assalto a Capitol Hill? Può questa tradursi in una diminuzione della presa americana sul mondo e quindi a un decentramento del potere all’interno del mondo globalizzato?
“È indubbio che l’immagine della superiorità americana è stata colpita duramente dai litigi interni, dalla mancata risposta al virus e dall’assalto al campidoglio. Adesso gli Stati Uniti devono quindi offrire una risposta globale alle conseguenze del virus per rilanciare il ruolo americano nel mondo. La risposta economica è già stata massiccia, con lo sviluppo del vaccino in tempi record. Ciò però potrebbe non essere sufficiente. La pandemia si innesta in una situazione preesistente di correzione di rotta americana in risposta all’ascesa della Cina, la cui competizione richiede agli Stati Uniti di riscoprire i punti di forza del proprio sistema da utilizzare come aggregatore per i propri alleati e tenerli così lontani dal modello cinese. Ciò passa nel rafforzamento dell’idea di democrazia. Si parla oggi di democrazia tecnologica, cioè di sviluppare una propria tecnologia da mettere a disposizione della diffusione dei nostri valori liberali. Diventa poi sempre più importante la base economica americana”.
Cosa di cui Biden ha detto di volersi occupare, come Lei diceva prima…
“Sì, perché non si tratta solo di una questione di politica interna ma anche di proiezione geopolitica degli Stati Uniti nel mondo. Per diffondere i valori della civiltà occidentale bisogna provare che questi sono alla testa di una società funzionante. Si è visto che l’appeal americano non è sostenibile se per esportare la democrazia si usano le bombe. Per avere un ruolo di guida bisogna tornare a garantire il benessere della classe media e correggere gli errori strategici che hanno portato alla disuguaglianza. Parlo degli errori commessi nella destabilizzazione del Medio Oriente, nel fallimento delle politiche di sviluppo in Africa e America Latina che celano un atteggiamento ancora imperiale”.
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Dobbiamo quindi aspettarci che per proteggere la classe media sia necessario rendere la produzione economica più radicata a livello locale e quindi in una certa misura meno globalizzata…
“A tal proposito ci ho scritto un libro. La globalizzazione dagli anni Novanta ha aumentato il potere della finanza e ha privilegiato gli investimenti a breve termine, pensando di relegare la produzione altrove. Ciò ha danneggiato tutta la struttura sociale ed economica e generato i problemi che Trump ha cavalcato. La maggior parte della politica americana ha ormai riconosciuto che questo modello deve cambiare, per rilanciare nel mondo sia l’idea di American Way of Life che quella di stabilità della democrazia statunitense. Che comunque non è mai stata messa in discussione, anche se ha dovuto reggere ad una situazione difficile con un presidente come Trump che prima ha costretto le istituzioni a riflettere, ma che poi ha anche minacciato la legittimità delle istituzioni stesse, cosa per cui non ha mai avuto nessun appoggio all’interno degli apparati dello Stato”.