Fra ciò che si dà e ciò che si riceve c’è il residuo fiscale
Nel 1950 l’economista James Buchanan definì il parametro in base al quale valutare l’adeguatezza dell’attività redistributiva complessiva del settore pubblico
Anche in Italia e nei territori di lingua italiana hanno fatto ingresso in epoca recente il concetto e la locuzione di “residuo fiscale”.
Benché di uso relativamente recente nei Paesi non appartenenti alla cultura anglosassone, esso fu introdotto per la prima volta dall’economista statunitense James McGill Buchanan Junior in un saggio del 1950 intitolato “Federalism and fiscal equity” e pubblicato sul periodico scientifico “American Economic Review”.
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Premio Nobel per l’economia nel 1986, al fine di trovare una giustificazione di tipo etico ai trasferimenti di risorse dagli Stati più ricchi a quelli meno ricchi degli USA, individuò nel cosiddetto residuo fiscale il parametro in base al quale valutare l’adeguatezza dell’attività redistributiva complessiva dell’operatore pubblico.
In estrema sintesi, egli lo intendeva come il saldo tra il contributo che ciascun individuo fornisce al finanziamento dell’azione pubblica e i benefici che riceve sotto forma di spesa dello Stato.
Il principio di equità orizzontale come regola
James McGill Buchanan sosteneva che, in base al principio di equità orizzontale (trattare in modo uguale gli uguali), l’attività pubblica (considerando tutti i livelli di governo, dallo Stato nazionale al municipio) avrebbe dovuto garantire l’uguaglianza dei residui fiscali per individui uguali (sotto il profilo del reddito).
Per l’economista del Tennessee, scomparso nel 2013, ne conseguiva che “un individuo dovrebbe avere la garanzia che dovunque egli desideri risiedere nella nazione, il trattamento fiscale complessivo che egli riceverà sarà approssimativamente lo stesso”.
Sulla base di questo principio, i residui fiscali di un territorio che derivano semplicemente dal fatto che in quel territorio sono concentrati cittadini con redditi relativamente più elevati (come, in buona parte, è il caso delle Regioni italiane a settentrione dell’Appennino tosco-emiliano) sono eticamente giustificati.
A parità di reddito vi sia parità di trattamento
Ciò che dovrebbe contare è che cittadini con lo stesso reddito, ma residenti in regioni diverse, siano trattati nello stesso modo.
In ambito pubblicistico, il residuo fiscale è dunque la differenza tra tutte le entrate (fiscali e di altra natura come alienazione di beni patrimoniali pubblici e riscossione di crediti) che le Pubbliche Amministrazioni (sia statali che locali) prelevano da un certo territorio e le risorse che in quel territorio vengono spese.
Nel caso delle Regioni e dunque dei principali enti pubblici territoriali, il residuo fiscale è calcolato come differenza tra le tasse pagate (al netto di entrate regionali anche non fiscali a seconda di come viene calcolato) e la spesa pubblica complessiva ricevuta, ad esempio come trasferimenti o in generale di servizi pubblici.
“Il sacco del Nord”, saggio choc di Luca Ricolfi
Nel contesto italiano, il residuo fiscale è balzato agli onori della cronaca in seguito alla pubblicazione nel 2010 di saggio del sociologo Luca Ricolfi intitolato “Il sacco del Nord”.
In esso, si metteva in evidenza come l’intervallo del residuo fiscale per le Regioni dell’Italia settentrionale variasse tra i 50 e gli 80 miliardi di euro l’anno, mentre quello per i territori più meridionali del Paese fosse negativo per una cifra tra i 41 e i 79 circa.
Accordo preliminare tra il Governo e la Regione Emilia-Romagna
Accordo preliminare tra il Governo e la Regione Lombardia
Accordo preliminare tra il Governo e la Regione Veneto
Era mostrato come i livelli dei consumi individuali non fossero corrispondenti ai livelli di PIL pro capite di ogni singola Regione.
Quindi, i territori che beneficiavano del residuo fiscale avevano un rilevabile aumento dei consumi in modo più che proporzionale al proprio Prodotto Interno Lordo, a danno delle altre Regioni.