La racchetta magica e il miracolo di natale

Ale e la racchetta magica Image by ChatGPT
Ale e la racchetta magica Image by ChatGPT

Alessandro, per tutti “Ale”, aveva dieci anni e una mano sinistra che sembrava nata con la racchetta attaccata. Quella mattina di dicembre si svegliò di soprassalto, il cuore che gli batteva forte nel petto. Aveva sognato una racchetta capace di fare miracoli: vinceva tornei, ma soprattutto guariva sua sorella Sofia, che da settimane non riusciva più ad alzarsi dal letto.

Si affacciò alla finestra. La neve cadeva lenta, coprendo il quartiere di un silenzio ovattato. Sofia tossiva nella stanza accanto; la mamma, Laura, lavorava doppi turni in fabbrica per pagare le medicine. Ale stringeva i pugni: si sentiva piccolo, inutile.

A colazione Laura cercò di sorridere. «Manca poco a Natale, tesoro.» Ale annuì senza convinzione. Dentro di lui, però, il sogno non svaniva. E se la racchetta magica fosse esistita davvero?

Dopo scuola corse al campetto dietro casa, la vecchia racchetta di legno in mano. Colpiva la palla con rabbia, come se ogni dritto potesse spingere via la malattia di Sofia. A un tratto qualcosa sfrecciò nel cielo grigio: una specie di meteora minuscola. Cadde proprio sul campo, rimbalzò una volta e colpì la racchetta.

Un lampo dorato. La racchetta tremò, poi parlò con una voce calda e un po’ rauca, come quella di un vecchio allenatore: «Era ora, mancino. Mi hai fatto prendere un freddo cane qua dentro.»

Ale rimase a bocca aperta. «Tu… parli?» «Certo che parlo. Sono la Racchetta Magica. Ma ho una condizione: se vuoi che ti aiuti a salvare tua sorella, devi imparare a giocare con la destra.» «Con la destra? Ma io sono mancino nato!» «Appunto» disse la racchetta, quasi ridendo. «La vita non sempre ti lascia usare la mano che preferisci. Impara.»

Ale protestò, brontolò, cadde mille volte. La racchetta non lo insultava mai, però era implacabile: «Di nuovo. Più basso il gomito. Senti la palla, non picchiarla.» Giorno dopo giorno, sotto la neve che si scioglieva e ricadeva, Ale imparò. Le dita della mano destra si riempirono di vesciche, poi di calli. I colpi diventarono puliti, precisi, diversi. Migliori.

Una sera abbracciò forte la mamma in cucina. «Vedrai, mamma. Troverò i soldi per Sofia. Te lo giuro.» Laura gli accarezzò i capelli. «I miracoli esistono, Ale. Ma a volte hanno bisogno di mani umane per arrivare.»

Il giorno dopo, davanti casa, un’auto si fermò con il motore che rantolava. Ne scese un uomo alto, giaccone pesante, sciarpa della Lazio: Marco Santoro, ex allenatore di giocatori professionisti, ora in cerca di talenti dimenticati. Chiese di telefonare. Mentre aspettava il carroattrezzi, guardò fuori dalla finestra e vide Ale che si allenava da solo.

Il ragazzo colpiva con la destra, ma il polso era morbido, il timing perfetto. Marco socchiuse gli occhi: quel bambino aveva qualcosa di speciale.

«Chi ti ha insegnato quel rovescio?» chiese quando Ale rientrò, infreddolito e rosso in faccia. «Lei» rispose Ale, mostrando la racchetta con naturalezza. Marco rise. «Una racchetta che insegna? Mi piace la fantasia. Facciamo così: domenica c’è un torneo under 12 al circolo. Vieni. Se arrivi in finale, ti prendo in squadra. Affare fatto?»

Ale guardò la racchetta. Lei non disse nulla, ma Ale sentì un calore diffondersi lungo il manico, come un sì silenzioso.

Il torneo fu una favola. Ale vinceva partite che sulla carta erano impossibili. Ogni volta che esitava, la racchetta gli sussurrava nell’orecchio: «Respira. Fidati della destra che hai costruito.» Arrivò in finale contro un ragazzo più alto di lui di una testa. Sul 4-5, 30-40 sotto, match point contro, Ale chiuse gli occhi un secondo. Sentì la voce della racchetta, ma stavolta era diversa, più dolce: «Non sono io, Ale. Sei tu.»

Servizio. Risposta. Dritto lungolinea di pura seta. Vittoria.

Marco mantenne la parola. Iniziò a portarlo ai tornei veri, quelli con il montepremi. Le borse di studio, i rimborsi spese, i premi: i soldi arrivarono, lenti ma sicuri. Laura poté portare Sofia da uno specialista a Roma. Le terapie funzionarono. A marzo Sofia tornò a scuola con le guance rosa e un pallone sotto il braccio.

La vigilia di Natale, sotto l’albero, c’era un solo regalo grande. Ale lo scartò: una racchetta nuova, professionale, con le corde rosse e verdi. «Questa è per i tornei» disse Marco, che era stato invitato a cena. «Quella vecchia la tieni per ricordo.»

Ale prese la racchetta magica, ormai silenziosa, e la appoggiò con cura sopra il camino. Non brillava più, non parlava più. Ma quando la guardava, sentiva ancora quella voce calda dentro di sé.

Il Natale successivo, la casa era piena di luci, di odore di pandoro e di risate che non si sentivano da troppo tempo.

Sofia, con le guance di nuovo rotonde e gli occhi brillanti, correva intorno all’albero inseguendo il gatto. Laura, per la prima volta dopo anni, aveva spento il telefono del lavoro e cantava “Tu scendi dalle stelle” mentre sistemava l’ultimo piatto di tortellini. Ale, seduto sul divano, teneva tra le mani la vecchia racchetta di legno: non brillava più, non parlava più, ma era lì, appoggiata accanto a lui come un amico che ha finito il suo compito e ora riposa.

Quando arrivò il momento dei regali, Laura gliene porse uno piccolo, avvolto in carta rossa. «Questo è da parte di tutti noi» disse con la voce che tremava un po’.

Ale lo aprì: era una targhetta d’argento, sottile, con una scritta incisa.

Per Ale, che ha imparato a giocare con l’altra mano e ha insegnato a tutti noi a non mollare mai. Con amore, Mamma, Sofia… e papà.

Sul retro, incisa, c’era l’impronta del pollice di suo padre.

Ale alzò gli occhi. La vecchia racchetta era appoggiata sopra il camino, silenziosa. Eppure, per un istante, gli parve di sentirla vibrare appena, come se qualcuno la stesse ancora impugnando dall’altra parte del cielo.

Si avvicinò, la prese con entrambe le mani e la portò sotto l’albero. La posò al centro, tra i pacchetti, come il cuore di quella notte.

«Questa non si tocca più,» disse con la voce bassa ma ferma. «È la racchetta di papà. È sempre stata la racchetta di papà. Lui è tornato per un po’, dentro di lei, per insegnarmi a usare la sua mano quando io volevo arrendermi con la mia. Ogni colpo che ho fatto con la destra… era lui che colpiva insieme a me.»

Una lacrima gli scivolò sulla guancia, ma sorrideva.

«Adesso può riposare. Ha finito il suo lavoro.»

Sofia gli buttò le braccia al collo. Laura lo strinse forte. Nessuno parlò più. Non serviva.

Fuori la neve cadeva fitta e silenziosa. Dentro, la vecchia racchetta di legno di suo padre rifletteva le luci dell’albero, quieta, senza più bisogno di brillare.

Perché il miracolo era compiuto, e l’amore di un padre non ha bisogno di magia: basta che un figlio prenda in mano ciò che lui ha lasciato, e continui a giocare, con la sua stessa mano.

Der Magische Schläger und das Weihnachtswunder

Alessandro, von allen „Ale“ genannt, war zehn Jahre alt und hatte eine linke Hand, die schien, als wäre sie mit einem Schläger geboren. An diesem Dezembermorgen erwachte er mit einem Ruck, das Herz hämmerte ihm in der Brust. Er hatte von einem Schläger geträumt, der Wunder vollbringen konnte: Er gewann Turniere, aber am wichtigsten war, dass er seine Schwester Sofia heilte, die seit Wochen nicht aus dem Bett aufstehen konnte.

Er blickte aus dem Fenster. Der Schnee fiel langsam und bedeckte die Nachbarschaft mit gedämpfter Stille. Sofia hustete im Nebenzimmer; ihre Mutter Laura arbeitete in der Fabrik Doppelschichten, um die Medikamente zu bezahlen. Ale ballte die Fäuste: Er fühlte sich klein, nutzlos.

Beim Frühstück versuchte Laura zu lächeln. „Weihnachten ist fast da, Liebling.“ Ale nickte, ohne überzeugt zu sein. Doch in ihm war der Traum nicht verblasst. Was, wenn der magische Schläger wirklich existierte?

Nach der Schule rannte er zu dem kleinen Platz hinter dem Haus, den alten Holzschläger in der Hand. Er schlug den Ball wütend, als könnte jeder Vorhand-Schlag Sofias Krankheit vertreiben. Plötzlich schoss etwas über den grauen Himmel: eine winzige Art Meteor. Es landete genau auf dem Platz, prallte einmal ab und traf den Schläger.

Ein goldener Blitz. Der Schläger zitterte und sprach dann mit einer warmen, leicht heiseren Stimme, wie die eines alten Trainers: „Endlich, Linkshänder. Mir ist hier drin eiskalt gewesen.“

Ale war sprachlos. „Du… sprichst?“„Natürlich spreche ich. Ich bin der magische Schläger. Aber es gibt eine Bedingung: Wenn du willst, dass ich deiner Schwester helfe, musst du lernen, mit der rechten Hand zu spielen.“„Mit der rechten? Aber ich bin Linkshänder!“„Genau“, sagte der Schläger, fast lachend. „Das Leben lässt einen nicht immer die Hand benutzen, die man bevorzugt. Lern es.“

Ale protestierte, beschwerte sich, fiel unzählige Male. Der Schläger beleidigte ihn nie, aber er war unerbittlich: „Noch mal. Ellbogen runter. Fühl den Ball, schlag ihn nicht einfach.“ Tag für Tag, unter dem Schnee, der schmolz und wieder fiel, lernte Ale. Die Finger seiner rechten Hand füllten sich mit Blasen, dann mit Hornhaut. Seine Schläge wurden sauber, präzise, anders. Besser.

Eines Abends umarmte er seine Mutter fest in der Küche. „Du wirst sehen, Mama. Ich werde das Geld für Sofia finden. Ich verspreche es.“ Laura streichelte sein Haar. „Wunder gibt es, Ale. Aber manchmal brauchen sie menschliche Hände, um anzukommen.“

Am nächsten Tag hielt vor ihrem Haus ein Auto, der Motor stotterte. Ein großer Mann stieg aus, mit einem Lazio-Schal: Marco Santoro, ehemaliger Trainer professioneller Spieler, nun auf der Suche nach vergessenen Talenten. Er bat darum, ein Telefonat zu führen. Während er auf den Abschleppwagen wartete, schaute er aus dem Fenster und sah Ale alleine trainieren.

Der Junge schlug mit der rechten Hand, doch sein Handgelenk war weich, das Timing perfekt. Marco zog die Augenbrauen hoch: Dieses Kind hatte etwas Besonderes.

„Wer hat dir diesen Rückhand-Schlag beigebracht?“ fragte er, als Ale hereinkam, gefroren und errötet.„Sie“, antwortete Ale und zeigte beiläufig den Schläger. Marco lachte. „Ein Schläger, der unterrichtet? Ich mag die Fantasie. Also: Am Sonntag gibt es ein Unter-12-Turnier im Club. Komm. Wenn du ins Finale kommst, nehme ich dich ins Team. Abgemacht?“

Ale sah den Schläger an. Er sagte nichts, aber Ale fühlte eine Wärme entlang des Griffs, wie ein stilles Ja.

Das Turnier war ein Märchen. Ale gewann Partien, die auf dem Papier unmöglich schienen. Jedes Mal, wenn er zögerte, flüsterte der Schläger ihm ins Ohr: „Atme. Vertraue der rechten Hand, die du aufgebaut hast.“ Er erreichte das Finale gegen einen Jungen, eine Kopfgröße größer. Bei 4-5, 30-40 Rückstand, Matchball gegen ihn, schloss Ale einen Moment die Augen. Er hörte die Stimme des Schlägers, doch diesmal war sie anders, sanfter: „Ich bin es nicht, Ale. Es bist du.“

Aufschlag. Return. Vorhand die Linie entlang, reine Seide. Sieg.

Marco hielt sein Wort. Er begann, Ale zu echten Turnieren zu bringen, denjenigen mit Preisgeldern. Stipendien, Reisekostenerstattungen, Preise: Das Geld kam, langsam, aber sicher. Laura konnte Sofia zu einem Spezialisten nach Rom bringen. Die Therapien wirkten. Im März kehrte Sofia mit rosigen Wangen und einem Ball unter dem Arm zur Schule zurück.

Am Heiligabend, unter dem Baum, gab es nur ein großes Geschenk. Ale packte es aus: einen neuen Profi-Schläger, mit roten und grünen Saiten. „Dieser ist für die Turniere“, sagte Marco, der zum Abendessen eingeladen war. „Den alten behältst du als Erinnerung.“

Ale nahm den magischen Schläger, jetzt still, und legte ihn vorsichtig auf den Kaminsims. Er glänzte nicht mehr, sprach nicht mehr. Doch wenn er ihn ansah, spürte er immer noch diese warme Stimme in sich.

Am nächsten Weihnachten war das Haus voller Lichter, nach Panettone duftend, und voller Lachen, das schon lange nicht mehr gehört wurde.

Sofia, wieder mit vollen Wangen und strahlenden Augen, rannte um den Baum und jagte die Katze. Laura hatte zum ersten Mal seit Jahren ihr Arbeitstelefon ausgeschaltet und sang „Tu scendi dalle stelle“, während sie den letzten Teller Tortellini arrangierte. Ale, auf dem Sofa sitzend, hielt den alten Holzschläger: Er glänzte nicht mehr, sprach nicht mehr, doch er war da, ruhend wie ein Freund, der seine Aufgabe erfüllt hatte und nun ausruhte.

Als es Zeit für die Geschenke war, reichte Laura ihm ein kleines, in rotes Papier eingewickeltes Geschenk. „Das ist von uns allen“, sagte sie, die Stimme leicht zitternd.

Ale öffnete es: Es war eine dünne Silberplakette, graviert.

„Für Ale, der gelernt hat, mit der anderen Hand zu spielen und uns allen beigebracht hat, niemals aufzugeben. Mit Liebe, Mama, Sofia… und Papa.“

Auf der Rückseite war der Daumenabdruck seines Vaters.

Ale blickte auf. Der alte Schläger ruhte still auf dem Kaminsims. Doch für einen Moment schien er leicht zu vibrieren, als würde ihn noch jemand von der anderen Seite des Himmels halten.

Er ging hin, nahm ihn mit beiden Händen und legte ihn unter den Baum. Er stellte ihn in die Mitte, zwischen die Pakete, wie das Herz dieser Nacht.

„Dieser wird jetzt nicht mehr angerührt“, sagte er mit leiser, aber fester Stimme. „Es ist Papas Schläger. Es war immer Papas Schläger. Er kam für eine Weile zurück, in ihm, um mir zu zeigen, wie ich seine Hand benutzen kann, wenn ich mit meiner aufgeben wollte. Jeder Schlag mit der rechten Hand… er schlug mit mir.“

Eine Träne lief über seine Wange, aber er lächelte.

„Jetzt kann er ruhen. Er hat seine Aufgabe erfüllt.“

Sofia warf ihre Arme um ihn. Laura umarmte ihn fest. Niemand sprach mehr. Es war nicht nötig.

Draußen fiel der Schnee dicht und still. Drinnen reflektierte der alte Holzschläger seines Vaters die Lichter des Baumes, still, ohne noch leuchten zu müssen.

Denn das Wunder war geschehen, und die Liebe eines Vaters braucht keine Magie: Es reicht, dass ein Kind in die Hand nimmt, was er hinterlassen hat, und weiterspielt – mit seiner eigenen Hand.

La macchina dispettosa – Die schelmische Maschine

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